Istanza subentro alloggio popolare e silenzio assenso.

La Terza sezione civile della Cassazione con ordinanza n. 13865 del 6/7/2020 ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della soluzione di questione di massima di particolare importanza relativa all’interpretazione dell’art. 20 della l. n. 241 del 1990, per verificare se possa formarsi silenzio assenso sulle istanze di successione/subentro nel diritto di godimento di un alloggio di edilizia residenziale pubblica e, in generale, se e in base a quali presupposti sia possibile escludere la formazione del silenzio assenso al di fuori delle ipotesi indicate dal comma 4 del citato art. 20.

La parte della motivazione più rilevante è la seguente:

“…..La questione che, allora, deve essere anzitutto esaminata, in quanto il suo esito ne condiziona qui ogni altra, è se sulle istanze, prima di ampliamento del nucleo familiare e poi di subentro nel rapporto con Ater, possa o meno essersi formato un silenzio assenso: questione che il collegio ritiene essere di rilievo nomofilattico, per le ragioni che seguono.

4.1 Della nota legge 7 agosto 1990 n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, come si è visto, il ricorrente invoca l’articolo 20, Silenzio assenso”, che, come molti altri articoli di tale testo normativo, è stato successivamente novellato, anche più volte. La norma originaria così recitava: “1. Con regolamento adottato ai sensi del comma 2 dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono determinati i casi in cui la domanda di rilascio di una autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla osta, permesso od altro atto di consenso comunque denominato, cui sia subordinato lo svolgimento di un’attività privata, si considera accolta qualora non venga comunicato all’interessato il provvedimento di diniego entro il termine fissato per categorie di atti, in relazione alla complessità del rispettivo procedimento, dal medesimo predetto regolamento. In tali casi, sussistendone le ragioni di pubblico interesse, l’amministrazione competente può annullare l’atto di assenso illegittimamente formato, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a sanare i vizi entro il termine prefissato gli dall’amministrazione stessa. 2. Ai fini dell’adozione del regolamento di cui al comma 1, il parere delle Commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato deve essere reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso tale termine, il Governo procede comunque all’adozione dell’atto. 3. Restano ferme le disposizioni attualmente vigenti che stabiliscono regole analoghe o equipollenti a quelle previste dal presente articolo.” La norma è stata riformata come segue dall’articolo 3, comma 6 ter, introdotto quale modifica nell’articolo 3 d.l. 14 marzo 2005 n. 35 dalla I. 14 maggio 2005 n. 80, che ha convertito appunto tale decreto legge con modificazioni: “1. Fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2. 2. L’amministrazione competente può indire, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza di cui al comma 1, una conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche soggettive dei controinteressati. 3. Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies. 4. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti. 5. Si applicano gli articoli 2, comma 4, e 10-bis.” L’articolo 2, Conclusione del procedimento, al secondo comma forniva infatti nel testo all’epoca vigente una norma specifica in ordine alla durata del termine (“Con uno o più regolamenti adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro competente, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, sono stabiliti i termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali devono concludersi, ove non siano direttamente previsti per legge. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. I termini sono modulate tenendo conto della loro sostenibilità, sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa e della natura degli interessi pubblici tutelati e decorrono dall’inizio d’ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte.”), per dettare poi una norma generale di chiusura al terzo comma (“Qualora non si provveda ai sensi del comma 2, il termine è di novanta giorni”). Successivamente vi furono ulteriori modifiche, qui non rilevanti perché non applicabili ratione temporis.

4.2 Prima della novellazione effettuata nel 2005, dunque, l’articolo 20 1.241/1990 costituiva una mera norma di rinvio, nel senso che rendeva operante il silenzio assenso solo nei casi in cui un’altra norma, fosse anche di fonte secondaria, lo prevedesse espressamente. Con la riforma del 2005 – che, come emerge ictu ocu/i da quanto appena ricostruito, potrebbe far incidere ratione temporis l’articolo 20 soltanto sulle due istanze di subentro, l’istanza di ampliamento del nucleo familiare essendo stata proposta nel 2003 – la regola è dunque cambiata radicalmente attraverso la tipizzazione non già dei casi di formazione del silenzio assenso, bensì, al contrario, di quelli in cui è escluso che possa operare, con la conseguenza che l’articolo 20 fornisce una regola generale di formazione del silenzio assenso nel caso di privati che rivolgano all’Amministrazione istanze volte ad avere un titolo abilitativo ampliativo della sfera giuridica e vi sia inerzia per novanta giorni; e sul piano letterale va pure rilevato, a conferma di tale impostazione generalizzante, che il primo comma dell’articolo equipara con totale ampiezza il silenzio assenso “a provvedimento di accoglimento della domanda”, rafforzando così pure l’inclusione del provvedimento di tipo concessorio. Il mutamento di prospettiva del 2005 mostra la sua ratio specifica nel fatto che l’uso della tecnica del silenzio assenso come rimedio all’inerzia amministrativa non è più strumentale al perseguimento di obiettivi ulteriori: la ratio del ricorso al silenzio assenso diviene immediatamente e soltanto l’esigenza di porre rimedio direttamente all’eventuale inerzia dell’amministrazione. Non a caso la portata della riforma e del mutamento di prospettiva è stata sistemicamente ribadita – si rileva incidenter tantum, trattandosi di normativa qui inapplicabile ratione temporis – dal successivamente riformato articolo 29 della medesima legge n. 241 del 1990, in cui dall’articolo 10 I. 18 giugno 2009 n. 69 fu introdotto il comma 2 bis dichiarante l’attinenza “ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”, tra l’altro, delle disposizioni della legge n. 241 concernenti l’obbligo della pubblica amministrazione di concludere il procedimento amministrativo “entro il termine prefissato” e di “quelle relative alla durata massima dei procedimenti”, nonché l’ancor più esplicito comma 2 ter nella seguente formula: “Attengono altresì ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione le disposizioni della presente legge concernenti la presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni, la dichiarazione di inizio attività e il silenzio assenso, salva la possibilità di individuare, con intese in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, casi ulteriori in cui tali disposizioni non si applicano” (e – si rileva sempre obiter – le successive modifiche del comma 2 ter operate prima dal d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modifiche nella I. 30 luglio 2010 n. 122, e poi dal d.lgs. 30 giugno 2016 n. 126 non hanno inciso sulla qualificazione come attività essenziale del silenzio assenso del testo in cui fu introdotta). Il legislatore stesso, quindi, ha in seguito tratto le fila della riforma del 2005 considerandone la portata come volta ad introdurre una regola generale di principio – salve quindi le eccezioni disposte nel comma 4 dello stesso articolo, individuate per materia – tale da integrare un essenziale livello di prestazione fornito dalla Amministrazione al cittadino, inserendo nel sistema, a ben guardare, un dispositivo di sua tutela che, mutatis mutandis soprattutto quanto agli effetti che produce, è almeno in parte riconducibile all’intervenuto canone della ragionevole durata (prima della sua costituzionalizzazione definita “economia processuale”) della prestazione giurisdizionale dello Stato, entrambi avendo assunto rilievo costituzionale. §-5. Peraltro, ritornando in certa misura alla diversa conformazione della normativa precedente, la generalizzata operatività della regola del silenzio assenso (salve appunto le eccezioni del quarto comma dell’articolo 20) è stata interpretata anche con modalità restrittive, come quelle che ancora fanno leva sulla distinzione tra provvedimenti concessori e provvedimenti di autorizzazione. A questa distinzione potrebbe ritenersi che si sia implicitamente riferita la sentenza della Corte di appello qui impugnata, laddove reputa che “nella specifica materia in oggetto, in cui l’eccezionale ampliamento del nucleo originario dell’assegnatario può determinarsi solo a seguito dell’accertamento degli specifici presupposti richiesti dalla legge, si renda indispensabile un’effettiva verifica al riguardo”, e ciò in ragione degli interessi coinvolti, segnatamente di quelli dei terzi iscritti nella lista ed in attesa di assegnazione, lasciando cosi intendere che la decisione di ampliare il nucleo familiare o consentire il subentro sarebbero provvedimenti di carattere concessorio, presupponenti accertamenti incompatibili con la regola del silenzio assenso.

5.1 La soluzione della Corte di appello parrebbe essere in linea, per quanto attiene appunto al settore dell’assegnazione degli alloggi di edilizia economica e popolare, con parte della giurisprudenza amministrativa, che sembra optare per l’esclusione della regola del silenzio assenso, a cagione del fatto che il provvedimento di assegnazione avrebbe natura concessoria e non di mera autorizzazione, e dunque presupporrebbe una discrezionale valutazione della pubblica amministrazione quanto alla compatibilità dell’assegnazione dell’alloggio con gli interessi pubblici. E l’assegnazione di alloggi sarebbe comunque avvinta a una graduatoria in base a un accertamento di presupposti di fatto demandato alla pubblica amministrazione. Una incertezza interpretativa emerge invero proprio dalla giurisprudenza amministrativa (la giurisprudenza di questa Suprema Corte sinora non ha dovuto affrontare ex professo simili profili), in evoluzione anche all’epoca in cui questa causa venne condotta al grado d’appello.

5.2 Nella sentenza che, come già anticipato, il ricorrente invoca – Tar Lazio, Roma, sezione II, 22 aprile 2011 n. 3542 -, vertente su un caso di istanza di sanatoria per assegnazione di un alloggio E.R.P., il giudice amministrativo riconosce come “fatto giuridico” l’essersi “ormai formato il silenzio assenso” nei confronti di detta istanza, onde l’Amministrazione, “qualora intenda rilevare una illegittimità nella formazione silente del titolo abilitativo che autorizza l’odierno ricorrente ad utilizzare l’immobile come legittimo assegnatario, non potrebbe che procedere in via di autotutela”. Affrontando ex professo la questione del silenzio assenso, il Tar afferma chei novellando nel 2005 l’articolo 20 della suddetta legge) “è stato introdotto l’istituto del c.d. silenzio assenso generalizzato”, in quanto “il legislatore ha ritenuto di dover modificare la natura, la portata e le modalità di realizzazione del c.d. silenzio assenso, inteso quale fatto giuridico equivalente in tutto e per tutto ad un provvedimento amministrativo di accoglimento di una istanza volta ad ottenere l’ampliamento della sfera giuridica del richiedente”. E mentre fino al 2005 “il legislatore aveva disciplinato l’istituto del silenzio assenso limitandolo ai casi in cui una norma (anche di fonte secondaria) avesse indicato espressamente le ipotesi in cui tale istituto potesse ritenersi operativo”, con la novella rappresentata dalla legge 14 maggio 2005 n. 80 (entrata in vigore il 29 maggio 2005), “mutando diametralmente l’approccio con detto istituto, il legislatore non ne ha più ancorato l’operatività alla previa individuazione normativamente tipizzata delle ipotesi in cui l’inerzia dell’Amministrazione avrebbe realizzato la stessa conseguenza dell’adozione di un provvedimento espresso favorevole a colui che aveva presentato l’istanza, ma ha ritenuto che detto effetto sia riferibile a qualsivoglia domanda proposta all’Amministrazione alla quale è attribuito l’esercizio di un potere discrezionale”; e al contempo “ha tipizzato i casi in cui il silenzio assenso non può operare”, cioè mediante il quarto comma dello stesso articolo 20 indicato “i settori ai quali è sempre necessario un provvedimento espresso dall’Autorità competente, indipendentemente dal rispetto del termine procedimentale previsto in materia”. Il novellato articolo 20, dunque, “reca le generali disposizioni in materia di silenzio assenso conseguente alla mancata adozione del provvedimento espresso richiesto da un soggetto interessato che abbia prodotto all’Autorità una istanza volta ad ottenere (ad esempio e per quel che rileva nella presente controversia) un titolo abilitativo ampliativo della propria sfera soggettiva e rispetto al quale l’Autorità stessa sia rimasta silente oltre il periodo temporale stabilito”. La sentenza del Tar dichiara di non condividere pertanto la giurisprudenza che, pur essendo stato novellato l’articolo 20, “in materia estranea rispetto a quelli ricadenti nel novero delle eccezioni” dettate dal suo quarto comma, ammette l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio assenso generalizzato, ribadendo peraltro che all’Amministrazione rimane il potere di autotutela ex articoli 21 quinquies e 21 nonies nella medesima legge. Per completezza, si dà atto che la pronuncia è stata riformata dal Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 26 marzo 2012 n. 1723, ma in forza del combinato disposto degli articoli 20 e 2, comma 2, I. n. 241 del 1990, ritenendo rispettato dall’Amministrazione il termine dettato per le domande d regolarizzazione stabilito da una delibera della Giunta regionale, segnalando peraltro la coerenza di ciò “con la natura sostanzialmente concessoria del provvedimento, in quanto espressione della comparazione tra i rilevanti interessi pubblici connessi alla regolare gestione del patrimonio abitativo popolare con quelli privati, riconducibili all’accesso all’abitazione”.

5.3 Un’ulteriore successiva giurisprudenza si è orientata, in modo ben più diretto della pronuncia che l’ha riformata ?avverso la lettura “generalista” della sentenza del Tar del Lazio invocata dal ricorrente. In particolare con la sentenza 10 ottobre 2017 n. 4688 il Consiglio di Stato, sezione V, ha negato che la fattispecie del silenzio assenso possa avere spazio “nella materia dell’assegnazione degli alloggi e.r.p., governata da specifica normativa e caratterizzata da complesse graduatorie”. A questo asserto aderisce poi la sentenza 19 febbraio 2018 n. 1013 sempre del Consiglio di Stato, sezione V – e sempre a proposito di un’istanza di regolarizzazione rispetto ad un alloggio popolare -, dichiarando che “la materia della concessione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non contempla il silenzio assenso come fattispecie provvedimentale”.

5.4 Non si può peraltro non rilevare che la giurisprudenza amministrativa, in altre pronunce – non aventi ad oggetto specificamente la tematica e.r.p., ma assumenti comunque posizioni di valore generale -ha esaminato in più ampia misura l’istituto del silenzio assenso come mutato dalla riforma del 2005, coltivando una interpretazione rigorosa, se non riduttiva.

5.4.1 Da un lato, vi è un orientamento che – come già sopra si accennava – “frena” l’istituto del silenzio assenso in riferimento alla qualifica del provvedimento che verrebbe altrimenti emesso nella sua peculiare forma per silentium: così, per esempio, la recentissima Consiglio di Stato, sez. II, 12 marzo 2020 n. 1788, seguendo la classica contrapposizione con cessione/autorizzazione, ha ancora espressamente affermato che “il procedimento di cui all’art. 20 della legge n. 241-1990 circa la formazione di un titolo abilitativo attraverso il meccanismo del silenzio assenso non è configurabile allorché l’Amministrazione deve rilasciare una vera e propria concessione amministrativa”.

5.4.2 D’altro lato, focalizzando più che il provvedimento espresso sostituito la natura propria del provvedimento silente e i suoi requisiti, il Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza 1 aprile 2011 n. 2019, per esempio, dichiara che sussiste “un generale principio in materia di silenzio assenso, per cui, ogni qualvolta il legislatore preveda per la definizione di istanze tale strumento di semplificazione e di snellimento dell’azione amministrativa, non è sufficiente la sola presentazione della domanda ed il decorso del tempo indicato dalla norma che lo prevede, ma è necessario altresì che essa sia corredata dalla indispensabile documentazione prevista dalla normativa, non implicando il meccanismo del silenzio assenso alcuna deroga al potere-dovere dell’amministrazione pubblica di curare gli interessi pubblici nel rispetto dei principi fondamentali sanciti dall’art. 97 della Costituzione e presupponendo quindi che l’amministrazione sia posta nella condizione di verificare la sussistenza di tutti i presupposti legali per il rilascio dell’autorizzazione”, collegandosi così a giurisprudenza insorta fin da prima della riforma dell’articolo 20 I. 241/1990, giurisprudenza che già così si era espressa, per un istituto, peraltro, dalla portata assai inferiore (come Consiglio di Stato, sez. V, 29 dicembre 2009 n. 8831, Consiglio di Stato, sez. VI, 20 ottobre 2005 n. 5921 e Consiglio di Stato, sez. V, 3 dicembre 2001 n. 6009). L’insufficienza del decorso del tempo per integrare il provvedimento silente è stata da ultimo riaffermata da Consiglio di Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020 n. 506: “il silenzio assenso costituisce uno strumento di semplificazione amministrativa e non di liberalizzazione, per cui esso non si perfeziona con il mero decorrere del tempo”, e infatti “la giurisprudenza ha ampiamente chiarito che la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo della presentazione della domanda senza che sia presente esame e sia intervenuta risposta dell’Amministrazione, ma la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui la fattispecie rappresentata non sia conforme a quella normativamente prevista”. Un’ottica che, evidentemente, già ingloba, per così dire, nel procedimento un’autotutela preventiva che impedisce la formazione del provvedimento, pur essendovi stata istanza e pur essendo decorso il termine. Un’ampia riflessione, tra gli arresti recenti, sull’istituto del silenzio assenso come riformato nel 2005 si rinviene, poi, in Consiglio di Stato, sez. IV, 11 aprile 2014 n. 1767, che – per nulla casualmente – prende le mosse dalla qualificazione come “perimetrativa” della “attività giurisprudenziale” svoltasi “su più versanti” quanto al silenzio assenso. Così si esprime tale pronuncia nella sua motivazione laddove qui interessa: “Avuto riguardo alle qualità intrinseche che la istanza deve possedere affinché possa validamente formarsi un silenzio-assenso giuridicamente rilevante e produttivo di effetti ampliativi, si è posto in luce che “una fattispecie di tacito accoglimento può aver luogo in presenza di istanze assistite da requisiti minimali (afferenti alla legittimazione del richiedente, alla corretta individuazione dell’oggetto del provvedere, alla competenza dell’ente chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da poter ricondurre al dato obiettivo della loro presentazione, unitamente al decorso del termine assegnato per provvedere, l’accoglimento per silentium … Con una affermazione che suona quale “clausola di chiusura del sistema”, si è … puntualizzato che “la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l’inutile decorso del tempo dalla presentazione dell’istanza senza che sia intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui l’interessato abbia rappresentato una situazione di fatto difforme da quella reale” …”. La necessità, tuttavia, di far confluire queste carenze in uno specifico procedimento di autotutela sembra essere sostanzialmente riconosciuta in questa pronuncia, affermando che giurisprudenza amministrativa precedente ha affrontato con “analoga cautela” gli accadimenti posteriori al decorso del termine, essendo indubbio che la /d°P° riforma del 2005, “nei casi in cui il silenzio equivale ad accoglimento della z/?, domanda, l’Amministrazione competente può soltanto assumere le determinazioni in via di autotutela” ai sensi degli articoli 21 quinquies e 21 nonies della I. 241/1990, non potendosi quindi limitare a provvedere tardivamente sull’istanza, bensì dovendo “avviare un vero e proprio procedimento di secondo grado finalizzato alla rimozione dell’atto (che si assume illegittimo) formatosi per silentium”. E deve al riguardo aderirsi – reputa in questo arresto il Consiglio di Stato – a quanto affermato come segue da un’altra significativa pronuncia in tema, Tar Campania, Napoli, 10 settembre 2010 n. 17398: “La funzione sollecitatoria a cui si ispira l’istituto del silenzio-assenso non può …, a pena di insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio dell’attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti dall’esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in sede di annullamento d’ufficio di un silenzio-assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo l’Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell’esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante. Correlativamente, è … legittimo il provvedimento di annullamento d’ufficio del silenzio assenso, ove l’Amministrazione, pur senza enucleare specifici profili di illegittimità dell’atto da annullare e specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l’annullamento medesimo, abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell’assetto di interessi scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla funzione tipica cui è preordinata l’attività amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell’assetto ritenuto “contra legem” ed al ripristino di quello risultante conforme all’interesse pubblico da perseguire – l’interesse pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di ripristinare l’equilibrio delle posizioni private coinvolte, che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura privata, ma costituisce l’essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell’ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni” (sulla base di queste elaborazioni giurisprudenziali, nella sentenza n. 1767/2014 il Consiglio di Stato giunge a ritenere che le istanze di un privato rivolte al Comune in tema edilizio “non avevano i requisiti per condurre ad un “assenso silenzioso” “). §-6.1 Riassumendo allora quanto si è rilevato in riferimento al thema decidendum, si deve dare atto che, se si intende – ut supra prospettato – che la sentenza qui impugnata abbia fatto perno su una qualificazione concessoria dei provvedimenti de quibus, la sua opzione non appare risolutiva. L’introduzione della distinzione tra atti di concessione e atti di autorizzazione costituisce una vicenda di costruzione giuridica, che mira a ricavare da una norma espressa – il silenzio assenso come generalizzato potenziale esito del procedimento amministrativo – una norma inespressa attraverso una tesi dogmatica, che non appare dotata di supporto quantomeno nella figura del silenzio assenso come novellata. Nella giurisprudenza amministrativa sopra richiamata la scelta appare in effetti assertiva, o comunque dovrebbe trovare sostegno dotato di maggiori specificità nonnofilattiche. A ciò si aggiunga che è diversa questione quella della prima assegnazione dell’alloggio e della individuazione pertanto del soggetto ad essa avente diritto, mentre nel caso presente si verte in ipotesi di subentro nel diritto già “concesso” dalla pubblica amministrazione all’assegnatario dell’alloggio e concretamente modulato poi nel contratto locatizio dell’alloggio e.r.p. Con la conseguenza che gli argomenti eventualmente utili ad escludere il silenzio assenso in caso di prima assegnazione, rectius, di individuazione dell’avente diritto, potrebbero non valere per il caso di subentro in un rapporto giuridico già instaurato tra privato e pubblica amministrazione. In questa ottica allora non osterebbe di per sé alla impostazione del problema in esame il tradizionale atteggiamento sulla differenza tra le concessioni e le autorizzazioni, che vede nelle prime atti con cui si consente ai privati il godimento di utilità su beni pubblici, e nelle seconde la rimozione di limiti all’esercizio di un diritto: il diritto sarebbe costituito dalla concessione e quindi già esistente, ma impedito nell’esercizio dal limite posto dall’autorizzazione. E’ noto del resto che, negli ultimi tempi questa distinzione è stata revocata in dubbio, con l’osservazione che anche l’autorizzazione è spesso costitutiva di diritti. D’altronde, come già si rilevava, l’articolo 20 della legge n. 241 del 1990 nel testo qui applicabile non distingue tra provvedimenti di concessione, di autorizzazione o di altro genere, limitandosi ad escludere il silenzio assenso solo in determinate materie, quelle indicate al comma 4, e nelle quali non rientra l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare. Ad abundantiam, si può quindi sostenere che il diritto di subentrare in un rapporto già costituito non è a sua volta «costituito» dal provvedimento di assenso, ma esiste per legge, e deve solo essere riconosciuto come esercitabile. In tal senso merita ricordare – quale caso affine – che Cass. Sez. Un. ord. 9 ottobre 2013 n. 22957, pur se resa in materia di giurisdizione, nella motivazione, a proposito della legislazione regionale piemontese sull’edilizia residenziale pubblica in un caso di subentro (prima la I. n. 46 del 1995 e poi la I. n. 3 del 2010), vi ravvisa la predeterminazione delle “condizioni che consentono il subentro nell’assegnazione dell’alloggio di edilizia sociale, senza lasciare alla P.A. alcun margine di discrezionalità valutativa, attribuendole bensì un ruolo meramente ricognitivo del diritto soggettivo al rientro; la tesi del ricorrente (secondo cui la configurabilità del silenzio-assenso comporterebbe la giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 133, lett. a bis, c.p.a.) è destituita di fondamento, nella considerazione che l’istanza di subentro della quale si discute non è volta a sollecitare l’esercizio di un potere discrezionale della P.A., bensì ad esercitare un diritto soggettivo”. Su questa linea, allora, se si intendesse attribuire ancor peso alla dicotomia concessione/autorizzazione ai fini del silenzio assenso, potrebbe prospettarsi che la valutazione degli interessi pubblici in gioco nel “concedere” il godimento del bene pubblico (l’alloggio) ad un privato sia effettuata a suo tempo dalla pubblica amministrazione con il provvedimento di assegnazione, per il cui positivo esito viene “costituito” il diritto di godimento a favore del privato prescelto, e che sia invece diversa la valutazione da compiere nel caso di subentro in un diritto già “costituito” a favore di altro soggetto, per via della convivenza e del rapporto relazionale con l’assegnatario, valutazione non implicante (come si evince pure dall’articolo 12 L.R. Lazio 6 agosto 1999 n.12), una ricognizione degli interessi pubblici propri della fase di assegnazione. 6.2 D nucleo del problema nomofilattico, peraltro, in considerazione di quanto complessivamente si è osservato, nel caso in esame appare risiedere nella latitudine ontologica del silenzio assenso quale species provvedimentale: al riguardo, nella sentenza in questa sede impugnata la corte territoriale come si è visto ha aderito in sostanza a quella giurisprudenza amministrativa che, a sua volta inseritasi nel mainstream restrittivo che ha tendenzialmente connotato il recepimento giurisprudenziale della riforma del 2005 (che però, non si può non notare, in complesso non ha stornato l’istituto dell’autotutela), si è orientata ad escludere ancora la portata del silenzio assenso in settori non espressamente menzionati in tal senso dalla normativa, e questo sulla base di una necessità di provvedimento esplicito scaturente, a sua volta, dalla necessità di una valutazione specifica di presupposti del provvedimento stesso. Il quesito che da ciò discende attiene, dunque, alla effettiva valenza sistemica o meno di tale prospettazione ermeneutica ai fini di ricondurre, in sostanza, in parte qua l’istituto del provvedimento per silentium alla conformazione attribuitagli dalla versione anteriore alla novella del 2005, così anche da prevenire e quindi – a ben guardare – circoscrivere correlativamente e proporzionatamente l’utilizzo dello strumento normativo, per così dire, di recupero, ovvero l’autotutela. In conclusione, questo collegio ritiene che tale questione in ordine all’interpretazione dell’articolo 20 della legge n. 241 del 1990, volta a verificare se si possa formare silenzio assenso sulle istanze di successione/subentro nel diritto di godimento dell’alloggio e.r.p. – il che è stato in linea di principio negato nell’impugnata sentenza, nonostante l’attuale dimensione generale evincibile dalla lettera della regola del silenzio assenso, esclusa solo in presenza delle specifiche ipotesi previste dal comma 4 dell’articolo e comunque presidiata dall’autotutela dell’Amministrazione stessa -, e pertanto, in generale chiarificazione ermeneutica, se e in base a quali presupposti un’interpretazione sistemica sia idonea a inibire la formazione del silenzio assenso al di là dell’ambito del comma 4 del medesimo articolo , costituisce una questione di massima di particolare importanza dovendosi pertanto rimettere gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 274 c.p.c. per la relativa valutazione in ordine alla pronuncia a Sezioni Unite….”.

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Avv. Roberto Di Pietro

Avv. Roberto Di Pietro da Avezzano (L'Aquila)